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S'UNDA MANNA

 

di Alfonso Spiga

con Stefano Farris, Mario Fulghesu, Giulio Landis, Luciano Mameli, Pino Mameli, Serena Perra, Ida Pillittu, Tomaso Spiga

musiche originali ed esecuzioni dal vivo Massimo Sciola

regia Giampietro Orrù

Produzione Antas Teatro

 

E’ un dramma immane quello che costituisce l’ossatura del presente lavoro e del quale è stata protagonista la comunità di San Sperate nel lontano ottobre 1892.

 

Il fatto: un’inondazione di vasta portata provoca settanta vittime, radendo al suolo due terzi delle case del paese (cfr. L’UNIONE SARDA del 25.10.1892).

E’ da ricercarsi quindi nell’esigenza, fortemente sentita, di riappropriarsi di una memoria storica che si va smarrendo la motivazione di questo lavoro; è da ricercarsi, altresì, nell’esigenza di voler rendere omaggio ai morti, certo, ma anche ai sopravvissuti che si adoperarono per la ricostruzione del paese, per la ripresa dell’attività produttiva, e in tale concezione li si è voluti portare in scena entrambi quali protagonisti di un dramma della vita, ripresi nella loro semplicità, povertà e quotidianità.

 

In scena i due personaggi, simboli della comunità di San Sperate, sentono la tragedia imminente, ne percepiscono, sensitivamente quasi, la drammaticità, pur confidando nella possibilità che le loro siano paure eccessive. I due personaggi, marito e moglie, sono anche simbolo di due diversi modi di “sentire” la tragedia che incombe, lei in modo estremamente semplice tenta di darne una spiegazione, come dire, quasi di tipo religioso vedendo nei fatti un castigo di Dio: “dda nau su vicariu, est castigu divinu!; lui, più razionalmente, ma in modo altrettanto semplice, trova altre responsabilità ascrivendole all’operato umano come sempre carente e intempestivo: “de candu funti narendu ca in sa bidda de Santu Sparau depint fai is arginis, e ita abètant….?”.

In tale contesto, in un’azione narrativa basata su uno sfasamento temporale (o meglio, basata su due diversi livelli temporali), si insinua la recitazione dei “morti” vittime dell’inondazione. I loro monologhi altro non sono se non anticipazione degli eventi successivi in una caratterizzazione dei personaggi fra le più variegate quale deve essere stata, necessariamente, quella dei morti del 1892.

Vi trova posto il “reietto”, una sorta di scemo del paese, una fra le figure più toccanti assieme a quella della “ragazza madre”, già evocata, quest’ultima, dai due attori dialoganti; la “bambina annegata”, figura patetica di creatura strappata alle future avversità della vita; il “notabile” del paese che si rivela un personaggio positivo, in antitesi con la comune concezione de “su meri” del tempo; i “due fidanzati”, i quali nelle loro considerazioni sulla caducità della vita anticipano una saggezza più naturalmente riposta nella figura della vecchia. “il supersite” che evidenzia la caparbietà dell’uomo nel riprendersi, non vinto, dal dramma di cui è stato, suo malgrado, protagonista; per finire, si inserisce la reinterpretazione di una “canzoni a cruba”, opera di autore ignoto del tempo e tramandatasi fino a noi oralmente.

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